lunedì 10 maggio 2010

Grazie a dio le pecore nere.


Ti pare che in una massa di ovini del tutto, in tutto, similmente addomesticati non sporga il risalto di un esemplare che non chiede permesso per brucare la nostra erba industriale. O che magari la rifiuta addirittura. Grazie a dio ci sono le pecore nere. J.D. Salinger nasce a New York, il 1° gennaio 1919, sparisce dalla scena già prima di morire quest’anno in un qualsiasi 27 gennaio. Sbarca in Normandia, è uno dei primi ad entrare in un lager nazista. Non dorme più, entra in terapia, non riesce a scordare quell’odore di corpi bruciati come ammette alla figlia. Sorprende Hemingway, incontrato in quella guerra del cazzo, col suo talento rabbioso e la sua scrittura sincera, tagliente, arguta, malinconica. Racconti consegnati ad alcune riviste americani e una mezza autobiografia che infiamma l’america fresca vincitrice, superpotenza imbellettata per la guerra fredda e colma di buoni propositi. The Catcher in the Reye , il giovane holden che cambia scuola come fosse un quotidiano abbandonarsi, l’inquietudine dell’adolescenza, qualcuno direbbe forse il male di vivere. Nella patria del consumo, del tramonto dell’individuo nel cliente che tutti accettiamo segretamente sperando di poter guadagnare il necessario per acquistare ciò che ci dicono ci serva da morire, J.D. scappa. Prima in una cittadina del New Hampshire, incontrando un gruppo di ragazzi delle superiori, rilasciando una delle poche interviste della sua vita ad una ragazzina per un giornale scolastico. Poi è sempre più isolato, misantropo, si sposa, fa figli, divorzia, incontra molte donne nel suo viaggio solitario. Scrive come si dovrebbe, per se stesso soltanto. Il buddismo zen nella sua anima è componente fondamentale quanto solo l’irriverenza brutale di un’intelligenza libera sul serio. Chissà se della morte ne ha avuto sentore lui che 91 anni se li è permessi. “Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.”
Stefano Diodati

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